Poesia della persistenza della memoria
Non c’è momento in cui Aldo di Castro, l’amico, la persona artista, non sia presente nei miei pensieri di viaggiatore nell’incanto solitario che Roma regala nei suoi angoli isolati, relegati nella memoria del tempo. Un tempo che ci insegna a vivere cogliendo il senso di poesia racchiuso nel cuore del colore che vibra di sonorità e appare inaspettato, così per incanto, a chi sa abbandonarsi docile, lontano dall’essere del presente tecnologicamente tiranno. E’ la mia solitudine che incontrò molti anni fa, ed ero un ragazzo ispirato dall’arte, un uomo speciale che in sé coniugava l’aristocratica morbidezza del flaneur, con l’eleganza della lingua parlata curata come l’abbinamento dei tessuti dei suoi abiti. Questo iridato personaggio spuntato per metafora da un racconto di Savinio, narrò la sua storia affascinante, fatta di memorie sognate.
Fu così che lo amai come un figlio, sognando con lui di fronte alle ebbrezze del colore romano, apprendendo la vita delle cose e – soprattutto – l’arte degli inevitabili dettagli, ascoltando gli accordi del vento seduto al Gianicolo, mentre Aldo cercava di cogliere l’immensità di Roma . I dettagli di Roma…
Come cercare di scrutare un universo di storia che ti sfugge perché la memoria ti trascina nell’onda violenta e informale del sogno di un passato. E con Aldo parlando, assieme alla
costruzione del paesaggio di immagine, il tempo strutturato di Cézanne si assimilava nel discorso pittorico con la memoria della materia di Mafai e la passione per la vita di Scipione, bruciante come in un raptus adolescenziale.
E mentre crescevo intellettualmente, sciogliendo le catene dalla credulità della cronaca che alcuni chiamano esistenza, Aldo mi additava nei libri di Carlo Levi o nella pittura della Raphael, quelle scintille di impercettibile ebraismo dantesco, fatto di un immaginario e leggenda sempre legato al sogno, per niente psicologico o formale, sempre insaporito di quel calore che il vino buono ti lascia sul palato.
Se penso che negli anni, passo passo ho seguito la sua arte, mi rendo conto che ho seguito l’evoluzione del suo essere artista, alla ricerca dell’istintivo riflesso ispirato da altezze inaccessibili per me, semplice studioso d’arte. Me ne rendevo conto mentre lo osservavo dipingere, immerso in una kavvanà, rituale concentrazione silenziosa fatta di piccoli tocchi sulla tela e di odori di essenze resinate, senza seguire progetti presuntuosi predestinati da calcoli, senza intenzione di voler cambiare le sorti della verità, per lasciare ad altri la possibilità di abbeverarsi alla freschezza della poesia istintiva dell’arte.
La grande arte dei paesaggisti barocchi, con i soffi d’aria che vorticano nelle arcate delle rovine imperiali, diorama sensuale di muschio, edere, capelvenere, arcate frondose che Granet e Corot resero parlanti nelle ondulazioni del cielo di Roma, ho appreso a viverle nelle vetrine del Babuino, di Piazza di Spagna, di Via Margutta, senza mai dimenticare la qualità che rende un piccolo Van Lint o un Codazzi, piccoli capolavori di vita vissuta.
Così saltando le goffagini universitarie, parlando di Longhi di Brandi, di Briganti, Salerno, Zeri, arrivavo a conoscere il profondo mestiere dell’insegnamento, fatto di parole vere e umane e imparando ad ascoltare le belle semplici parole dei comuni profani.
Per questo nella pagina dell’arte di Aldo di Castro, la passione per la vita si rischiara alla luce dell’umanità, pur nel necessario esercizio fisico del disegno appreso attraverso la scuola dell’attenzione verso l’omogeneità, le masse plastiche e versioni metafisiche a volte morandiane, plasmando nei tessuti felpati della sua tavolozza quel senso ardito di profumo di ria lavata che era negli angoli dei vicoli del ghetto, in cui nelle nicchie del sogno metafisico venivano a colmare un vuoto i colori dei dolci della pasticceria del Ghetto. Vivevamo allora un alito di sogno ferrarese, trascritto nelle atmosfere dei sapori delle carni seccate al suono stridente e pungente della tramontana. Tutto nell’apprendere di pittura, visitando musei e mostre, criticando nel giusto i punti di vista degli altri.
Allora Roma era diversa, non aleggiava la pesantezza marmorea dell’armonia prestabilita delle leggi, arroccata nella certezza dell’incerto, aleggiava l’immagine dell’arte Chagall racchiusa nei cuori semplici degli umili discendenti della più antica comunità di una diaspora difficile e avversata, ma vissuta all’ombra di splendidi capolavori, ebrei caravaggeschi, araldi del popolo romano più antico, trasteverino o monticiano. Noi passeggiavamo nel nulla mentre Aldo favoleggiava, in bilico come nei suoi dipinti sospesi nell’attenzione dell’istante possibile in cui la razionalità cede ai suoi cardini metallici, aprendo all’immaginazione la sua forza primordiale e lenitiva, cura dei mali materiali dell’essere.
Passeggiavamo assorti nell’ebbrezza ottimista di vivere la città senza avere paura di nulla, lasciando alle spalle le dure e lucide pietre d’inciampo, necessarie alla memoria scritta con il dolore e l’assenza.
Posso dire che molte volte mi sono perso nei paesaggi di Aldo di Castro, ripensando a lui attraversando i corridoi della Galleria Comunale di Roma punteggiati di ambrati Trombadori, atinati di affetto come di cipria materna, nostalgiche visioni magiche che accanto ai Donghi o ai Socrate, rimandano alla nostalgia malinconica di un mondo scomparso nelle ante dei depositi dell’anima.
Chissà quante volte accadrà che guardando un tuo dipinto, una tua vetrata, qualcuno di noi provi il piacere di ritrovarsi in un luogo della memoria, – d’altronde non si può – senza saperlo o senza volerlo – lasciandosi andare alla semplice emozione di rendere un istante vivo, nella sensazione di sentire il vento e il tepore della carezza del fluire del fiume sulle cui sponde sorse tanto stupore d’arte e di storia.
E’ questo che rende sempre nuova la sensazione di essere a contatto con la poesia del vivere e vedere ed essere felici di percepire i tagli di spazio e di tempo irradiati di luce, che ho ritrovato sempre nella ricerca del mio maestro ed amico, istanti di vita vissuta, immersi nella naturale spontaneità di insegnare e trasmettere brani di vita, mai distaccandosi dalla umana dimensione di privilegiare il tempo dell’incanto, per ancorarsi alle certezze, a volte schematiche del fondamentalismo etico.
E ogni volta, passando da ponte Quattro Capi, rivedo il tuo profilo nella bontà dell’aria romana, respirando la luce di Roma, e attraversando l’aria che corre nelle connessure dei vetri che illuminano chi crede nell’eternità del Tempo.
A te con l’affetto di un figlio, l’amore per Roma e per la sua arroventata difficoltà che mi hai insegnato e che riveli ancora, magicamente, nel sottile ma indistruttibile passanastro della storia della Città Eterna.
Cesare Terracina