Ricordi e testimonianze
Risulta quanto mai difficile, per un amico ed un critico d’arte, commemorare in modo indiretto, come la letteratura d’arte impone, un artista scomparso da brevissimo tempo.
L’opera di Aldo di Castro nel panorama artistico ebraico romano rappresenta un momento di grande confronto con la cultura della città e la sua antica tradizione storico artistica, cementata attraverso le espressioni del popolo ebraico costantemente a contatto con il senso dell’arte figurativa profondamente radicato nel culto cattolico.
E’ evidente che la sua formazione di artista, avvenuta nell’ambiente di via Margutta, nella Roma del dopoguerra, piena di speranze e di trasgressioni sociali, fusa assieme alla cultura dei parenti antiquari inesauribili fonti di contatto con il mondo romano importante, lo metterà in Nato nel luglio 1933 e cresciuto nella Roma degli anni del dopoguerra, nell’atmosfera nell’ambiente culturale e degli studi che in ogni andito di via Margutta, rilasciavano un’aura giovanile di novità poetiche piene di speranze di rinnovamento, Aldo di Castro aveva trovato giovanissimo nell’arte la speranza di rinascere dopo gli orrori della guerra e delle persecuzioni razziali che in lui, lasciarono un segno profondo ed indelebile.
In via Margutta, tuttora c’è un’aria malinconica fatta di ricordi e di tanti passaggi di epoche e di eventi da far impallidire la memoria anche della persona più colta in fatto d’arte: Aldo di Castro mi raccontava spesso delle glorie della nostra scuola romana, di Mafai, Ziveri, Trombadori, ricordando fatti e personaggi con un’intensa espressione di amore per una Roma che oggi si rammenta soltanto nelle fotografie di repertorio. Una Roma che da artista amava nei colori e nei silenzi delle mattinate che, teneramente spesso, ragazzo, dividevo con lui al Gianicolo nei pressi del faro, suo punto di osservazione prediletto, là dove l’immensa Roma sembra mostrarsi indifesa e quieta, bella come non mai, inconoscibile e austera.
Aldo di Castro amava la pittura cosciente di essere erede del tonalismo vellutato della scuola romana, mettendoci quel tanto di sentimento ebraico che nel tempo lo ha fatto approdare verso un interesse simbolico di un mondo religioso affascinante e misterioso.
Ispirato da una fede interiore e rivolta all’universalità, espressa nel dialogo ebraico – cristiano, attraverso i lavori intagliati nel vetro colorato, con perizia e meticolosità regalò alla Comunità ebraica le vetrate che illuminano due sinagoghe romane come preghiere che mormorano la litania dei secoli di tradizione, finestre che allietano l’atmosfera del rito religioso e che ancora oggi il sole attraversa, raccontando della sua speranza artistica verso una preghiera di serenità per tutti i popoli della terra, senza distinzioni di fede o di idee.
Affascinato dal grande Marc Chagall, Aldo approdò al surrealismo, sospendendo nel tempo i fotogrammi di una vita che in un certo senso iniziava a scorrere troppo velocemente sulla sua tavolozza. Cercando poesia e trasognatezza in ogni angolo dell’uomo e nei suoi sbilanciati e vacui simboli sociali, la fuga verso il fiabesco e verso la grandezza misteriosa della natura, lo portò a Velletri , dove il suo cuore di bambino riposò dalle ansie della vita cittadina.
A Velletri Aldo di Castro maturò la sua nuova vita, fatta di pittura, incontri, musica e stima che grazie a dei grandi e veri amici lo incoraggiò a produrre dipinti, sculture in legno e fiabe illustrate, felice di essere attivamente impegnato e col sentimento rivolto a rendere un generoso dovere che esprimesse la sua semplicità umana.
Per Velletri che lo ha accolto come uno degli stanchi pittori viandanti per la campagna e con chi, come lui, amando immensamente l’arte e quella campagna, l’ha descritta e la descrive con il sentimento più elevato e la sensibilità più sublime, la traccia lasciata da Aldo di Castro sarà annodata nelle rughe della memoria di quegli olivi stupendi e antichi che suggestivamente gli ricordavano tanto Gerusalemme.
Sarebbe assai difficile racchiudere la apparentemente semplice personalità di Aldo di Castro, in poche righe sintetiche e abbreviate. Ma descrivere l’uomo, l’ebreo, l’artista, appare oggi, a distanza ravvicinata dai pochi mesi che misurano la sua scomparsa, davvero arduo. Come fossero appunti di viaggio, ripercorro le tante occasioni espositive in cui i testi per i cataloghi passando per la nostra attenzione, creavano un’onda di partecipazione emotiva e culturale.
Ma al presente, è stata un occasione, ultima, in cui ho vissuto intensamente la sua grande amicizia : una bellissima giornata trascorsa nei pressi di Lanuvio, ad un passo dalla sua casa di Velletri, un pomeriggio organizzato per Aldo da quella cultura di provincia, niente affatto dimessa o locale, ma proiettata verso disparatissimi interessi, come le ultime sculture in legno di Aldo di Castro.
Quella manifestazione lo riempì di gioia e di amarezza, misti alla soddisfazione di vedere il suo mondo, la sua storia, trascorrere nella luce delle diapositive proiettate. All’adolescenza, trascorsa nella semplicità complessa del cercare uno spazio nella vita difficile di anni in cui si rincorrevano le idee, Aldo respirando l’aria sontuosa delle botteghe antiquarie romane, prima quella dello zio Eugenio di Castro, dove il cugino Angelo, scultore e grande conoscitore d’arte lo accompagnerà per mano ad un salto di vita e di consapevolezza verso la difficile scelta dell’arte, fra le strette pareti di via Margutta.
Aldo di Castro, ebreo all’antica, si esprimeva con la sua forte componente di folklore religioso nel più profondo del cuore, consapevole della sottile lama dell’ipocrisia umana, che sempre lo sbalordiva, perché umanamente portato verso il dialogo diretto, da commerciante straordinario quale era.
Ma le diapositive regalate in quell’occasione raccontavano la storia di un uomo raffinato, che aveva conosciuto personaggi come Manzù, Carlo Levi, Omiccioli, Maccari, Vespignani, Trombadori, e i tanti artisti ormai dimenticati nei retrobottega delle gallerie d’arte romane, in attesa di rivalutazioni commerciali.
Immagini di una vita spesa per gli altri, credendo nella possibilità che fare arte potesse aggiungere prestigio al popolo di Israele e al suo retaggio di immaginazione sbrigliata, perfettamente consapevole che Modigliani, Soutine, Kisling, Katz, e l’amatissimo Chagall, non avevano di certo infranto il tabù della trascendenza, ma avevano offerto solo il primo piolo alla tensione della Scala di Giacobbe.
Per questo Aldo non dipingeva mai di Shabbàt e dedito alla preghiera, si avvolgeva in sé per sfuggire ad un mondo troppo cresciuto per il suo animo di bambino, che si scioglieva di fronte ad un tramonto romano. Un’altra diapositiva e la vita di via Cola di Rienzo, ‘a bottega’, accanto alle scelte dell’abbigliamento, con un gusto ed una attenzione condivisa con Bruna, partecipi della bella società del mondo ebraico romano.
In effetti, da personaggio della Dolce vita, Aldo di Castro amava la mondanità intelligente, profonda e motivata, che addirittura aveva importato all’interno del suo studio e nella casa accanto alla sua famiglia in un ambiente raffinato ed elegante. Senza eccessi, partecipava attivamente con lo sguardo chiaro ed affilato rivolto ad Eretz Israel, come quando incontrando Itzchak Rabin con l’espressione di chi crede nel valore della vita, sperava che certe cose trovassero un epilogo, una via d’uscita di pace.
Sfogliando il repertorio di immagini, compariva nei diversi ruoli, difficile da acciuffare nella strettoie obbligate della vita quotidiana ebraica romana, in cui Nello Pavoncello, z.l., insegnava a scendere dalle cattedre e dai ruoli di predominanza culturale, attento alle domande dei semplici, che sempre rivelano la complessità più profonda.
Aldo sapeva che il suo cuore era accanto a quella Roma ebraica fatta di aneddoti, di dialetto giudaico – romanesco direttamente connesso a Trilussa e a Zanazzo, a quella cultura ebraica che aveva assorbito la linfa romana, cedendo generosamente a sua volta un lessico di usanze e di malizie sottilmente ebraiche al popolo della cattolicissima città.
Le diapositive scattate da me lo vedono intento a raccogliere i frammenti creativi delle vetrate del Tempio dell’Isola Tiberina, pezzo di vetro su pezzo di vetro scelti con la precisione di un lavoro da maestro medievale, individuando il valore esatto della luce come manifestazione della spiritualità, onda di colore che attraversa lo spazio denso della Tefillà.
Aldo mentre dipingeva dal vero al Gianicolo, raccoglieva l’esperienza della città da lui più amata: Parigi, che lo riportava al Lapìn agìle, agli impressionisti e ad Utrillo, artisti che lo facevano sognare. Imprendibile mentre dipingeva, lasciava attorno a sé quel profumo di studio, senza lasciarsi sfuggire la costa di S. Severa e di S. Marinella, troppo vacanziera per il suo istinto di solitario dell’arte. E a ripercorrere i cataloghi delle sue mostre, si nota il cammino verso una espressività che a partire dalle rosate atmosfere romane, come è siglato in un Colosseo del ,si sposta verso una tendenza diretta verso il sogno ad occhi aperti surrealista, ma senza alcuna lotta fra istinti freudiani, o alla ricerca dell’archetipo come crogiolo aurorale del pensiero, come le nostre conversazioni mi rammentano, quando parlando dell’astrattismo, mi confessava che non lo “sentiva” affatto, non avvertendone la carica spirituale esplosiva e tesa verso un ritorno a spirale verso l’ignoto dell’esistenza.
Amando alla follia Van Gogh , ne condivideva la sofferenza per i dolori di un mondo eretto sulle incomprensioni. Dell’artista olandese leggeva le lettere al fratello Théo con le lacrime agli occhi, commosso per la fraterna e problematica umanità, che accostava a sé, ai drammi dell’unione e della separazione dettate dalle piccole follie familiari, mentre ammirava la forza espressiva, i contrasti e la luce irrazionale dei suoi paesaggi e delle nature morte.
Il mondo figurativo di Aldo di Castro ritagliava lentamente una sigla assai personale, rivelata nelle tecniche che dall’acquaforte alla linoleografia, mescolava le tracce espressive, che rivelavano la sua necessità di spaziare al di là della consuetudine.
Direi che la sua svolta verso il surreale, difficile antro da percorrere, lo ha visto allontanarsi da una adesione al paesaggismo morbido e poetico del tonalismo romano degli esordi, per inoltrarsi verso simbologie ebraiche duttili e scoperte. Cammino intenso che lo ha condotto a confrontarsi con la “sospensione e l’attesa”, momento di cui restano istanti pittorici di altissima qualità disegnativa e inventiva.
Ma la diapositiva più impegnativa e a me cara, resta il mio sogno in cui Aldo dipingeva per me un paesaggio romano chiaro chiaro, quasi evanescente. Questo sogno lo intendo solo ora, mentre scrivo non da critico d’arte ma da amico, da figlio spirituale adottato un giorno qualsiasi, mentre Aldo prestava il suo turno di sorveglianza alla scuola ebraica, ed io studente ammazzavo il tempo che non riuscivo a condividere con i coetanei.
La parola arte rimase per noi fino all’ultimo la chiave della vita segreta dell’apparenza, colmando i vuoti ed i silenzi, saltando la differenza d’età, unendoci in una linea retta che bagnava d’ebraismo ogni nostro discorso.
Nel pomeriggio di Lanuvio, Aldo ha cantato, in francese, come amava fare fra intimi, e mentre scorreva il diario di una vita intera, il tempo accelerava la sua folle indefinita corsa.
L’artista ricevuto dal papa, da Spielberg , da personalità potenti, forte del suo mondo interiore e della fantasia ancorata alle fiabe scritte per i bambini, vedeva adombrarsi la luce di Roma sfigurata dal traffico e dall’inquinamento, soffriva per le scritte che deturpavano e deturpano tuttora il faro lattiginoso del Gianicolo . Roma cambiava faccia, così come la sua ispirazione non riusciva a mettere a fuoco questo dissidio.
Il ritiro in campagna, in mezzo ai sui quadri e alle radici d’olivo scolpite con la passione dell’artigiano, accanto al brivido dell’inverno di Velletri, accanto alla sua macchina da scrivere e ai suoi colori, al calore umano degli amici, si spiegano come ricerca della speranza di imporre una generosità rivolta a sé stesso, per difendere la sua creatività minacciata da ombre maligne.
Ricordo la sua espressione in un’altra diapositiva, nel Tempio di via Balbo, deserto, alla prima inaugurazione delle vetrate che Aldo creò, pensando a Simchat Toràh. Pensando alle nostre conversazioni, ricordo i pranzi, i ricevimenti, le occasioni di centralità culturale della nostra Comunità, le parole di ammirazione per coloro che hanno accolto e considerano tuttora la sua arte come un punto di riferimento.
Aldo di Castro ci ha lasciato assieme alla sua espressività fatta di ciò che reputava sacro, una eredità fatta di umiltà e di poesia, capace di rivelare la vita di un ebreo ed artista di una generazione sconvolta.
E nella memoria dell’Olocausto del suo popolo ha chiesto di chiudere la sua parabola artistica, lontano dalla ricerca della notorietà e del successo, rivelando la traccia del sentimento del tempo, di un tempo che nessuna arte potrà mai rappresentare con immagini definitive.
Cesare Terracina